[vc_row][vc_column][vc_column_text]

COSA LORO: LA CUPOLA DEI MERCANTI DI CARNE UMANA

Di Piero Messina – Limes n° 6 2015
Struttura e funzionamento del racket che gestisce i passaggi di disperati dalla Libia all’Italia lungo il Canale di Sicilia. Costi, ricavi, truffe e incidenti dei ‘viaggi della speranza’. I collegamenti con le milizie libiche e con le mafie nostrane[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_accordion active_tab=”10″ collapsible=”yes”][vc_accordion_tab title=”Leggi l’articolo”][vc_column_text]

È una nuova forma di mafia in grado di offrire un servizio completo a chi dal Centrafrica decide di entrare fraudolentemente in Europa o vuole dirigersi in qualsiasi altro continente, dall’Oceania alle Americhe. È un sistema criminale perfetto, anch’esso soggetto a una Cupola, composto da una pluralità di soggetti e gruppi, organizzato su scala transnazionale con basi operative nella sponda Sud del Mediterraneo e antenne logistiche in ogni città italiana ed europea. Nulla è lasciato al caso. In ossequio alle logiche del mercato i «clienti» possono usufruire di servizi e procedure di assistenza disegnati su misura, calibrati rispetto al prezzo che ciascun migrante è disposto a pagare. Come per tutti i sistemi mafiosi, l’unica regola da rispettare è «follow the money».
È un giro di denaro incalcolabile: soltanto le migrazioni gestite dai cinque network criminali che controllano i flussi dalla Libia realizzano ogni anno un fatturato stimato tra i 260 e i 300 milioni di dollari. Questo tesoro viene ripartito con quote destinate alle milizie locali libiche, alle enclave controllate dalle formazioni jihadiste. E una parte di quel fatturato – secondo le recenti indagini delle procure italiane – potrebbe finanziare anche le nostre mafie, che dopo una prima fase di laissez-faire ora forniscono servizi alla rete delle migrazioni clandestine: dalle centrali per la contraffazione di documenti sino al controllo e alla gestione dei centri per i migranti.
Ma quanto si paga per un viaggio della speranza? I costi variano a seconda della qualità del servizio offerto. In generale, per arrivare dal Centrafrica alla Libia si pagano dai 4 ai 5 mila dollari; per attraversare il Canale di Sicilia se ne devono spendere tra 1.000 e 1.500. Ma ci sono eccezioni con trattamento extra lusso. Anche vecchi yacht vengono destinati alla rotta dei migranti: in questo caso il transfert arriva a costare tra gli 8 mila e i 10 mila dollari per passeggero, con la promessa «pagate e viaggerete con ogni confort». Per passeggeri vip alla ricerca dell’anonimato e della massima sicurezza, il trasporto verso le coste siciliane può avvenire anche con pescherecci moderni. Secondo la ricostruzione di alcuni tunisini fuggiti dal loro paese nella primavera del 2011, c’è anche un Mazara Express, linea di collegamento tra le spiagge del Nordafrica e la Sicilia, che tra le tante opportunità offre quella di dissimulare i passeggeri come personale di bordo, appartenente alla comunità araba insediata da tempo nella cittadina portuale siciliana.
Ma la varietà di servizi offerti ai migranti non finisce qui. L’assistenza viene fornita anche in Italia, organizzando la fuga dai centri di accoglienza (da Siculiana, in provincia di Agrigento, e dal Cara di Mineo) con veri e propri servizi taxi e garantendo ospitalità per una o due notti (costo compreso tra i duecento e i quattrocento dollari). Infine, l’intero ciclo si conclude con i servizi di trasporto per attraversare l’Italia e puntare verso i paesi del Centro e Nordeuropa, la meta finale più ambita. Anche questo trasferimento si paga carissimo, sino a mille dollari, nonostante vengano utilizzate le normali linee degli autobus o le ferrovie.Gli sforzi dei paesi interessati a contrastare questi fenomeni non hanno sortito alcun effetto, se escludiamo gli interventi sul piano giudiziario. Anzi: secondo fonti dell’intelligence, sulle sponde della Libia ci sarebbero almeno 500 mila profughi (in gran parte siriani in fuga dalla guerra) in attesa di compiere l’ultimo tratto del viaggio della speranza per entrare in Europa. In ballo ci sono altre centinaia di milioni di dollari. Soldi che potrebbero finire in parte a finanziare anche le centrali dell’eversione islamista in Nordafrica: le indagini, sino a questo momento, hanno rivelato dei punti di contatto con le organizzazioni militari e paramilitari che operano nel deserto del Maghreb e lungo la costa libica. Il prossimo passo delle indagini punta a dimostrare che una quota del tesoro creato dal traffico dei migranti finisce nelle casse dei sostenitori dello Stato Islamico che controllano alcune piccole enclave in quella che una volta era la Libia.
La stagione aurea del traffico di esseri umani è una diretta conseguenza delle politiche degli Stati europei. Secondo i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, «le politiche di contenimento dei flussi degli immigrati adottate da tutti i paesi di destinazione hanno determinato, come effetto collaterale, che la criminalità organizzata decidesse di investire risorse sempre più ingenti nella gestione illegale di tali flussi. Al divieto di ingresso regolare oltre un determinato numero prefissato è subito seguita la risposta di superare l’ostacolo frapposto. La criminalità organizzata a livello transnazionale si è posta come una azienda, o meglio come una società di servizi, in grado, verso adeguata retribuzione, di garantire il viaggio per l’Italia o per un altro paese europeo». Sono proprio le dinamiche della politica europea a rendere necessarie queste centrali criminali e a fornire, agli occhi dei migranti, una sorta di copertura morale per chi opera in quel settore: «La criminalità organizzata si è proposta non solo di offrire un servizio, ma è divenuta protagonista di un ruolo paradossale di dispensatrice di speranze, perché si è autoreferenziata come lo strumento principale, indispensabile per realizzare un sogno, quello di raggiungere un paese che, agli occhi del migrante, rappresenta un investimento di vita per il futuro».
Non esiste una linea di demarcazione netta tra traffico dei migranti e tratta degli esseri umani, perché sulla carta i gruppi criminali si caratterizzano sia per svolgere una funzione assimilabile a quella di una buona agenzia di viaggi, di un efficiente tour operator (scambio adeguatamente retribuito che avviene su una base illegale) sia per dotarsi dei tratti tipici delle organizzazioni mafiose: una rete fitta e articolata che opera per l’attuazione di un progetto delittuoso, una struttura stabile con obiettivi ben pianificati.
Nel caso specifico, i tratti che caratterizzano questa rete transnazionale sono relativi alla capacità di organizzarsi anche in territori ostili. A partire dal trasferimento dei migranti sui pick-up dai paesi di origine, passando per la concentrazione di quegli stessi migranti in luoghi sorvegliati da guardie armate, per arrivare alla capacità di disporre di un adeguato numero di imbarcazioni per il trasporto via mare e all’arruolamento di vere e proprie falangi operative per i ruoli più disparati: procacciatori dei migranti, autisti, guardie armate, membri dell’equipaggio di più natanti. Le reti criminali che gestiscono il traffico di esseri umani hanno spiccate capacità di management. Sono infatti dotate di codici di comportamento concertati, standardizzati e collaudati in modo da essere pronti all’appuntamento con la storia. Non è infatti un caso che queste attività abbiano registrato una progressiva intensificazione in contemporanea con il deflagrare di rivolte e guerre nei paesi di precipua provenienza dei migranti.
A dimostrazione di questa elevata capacità manageriale si possono citare due aspetti emersi dalle indagini degli investigatori italiani. In primo luogo, le organizzazioni hanno creato un vero e proprio decalogo per il migrante, un documento che viene distribuito a tutti coloro che si accingono a recarsi in Europa. Il decalogo contiene le istruzioni – fornite direttamente dagli organizzatori del traffico – su come comportarsi e come sottrarsi, se possibile, alle procedure di fotosegnalazione e agli accertamenti di rito. Questo indottrinamento è ancora una volta diretta conseguenza delle politiche di Fortezza Europa. Infatti, suggerire ai migranti di restare in stato di clandestinità lungo i loro spostamenti in territorio europeo è funzione delle procedure di Schengen. Ad esempio, una segnalazione delle forze di polizia in Italia comporterebbe l’esclusività del procedimento amministrativo nel paese europeo dove il migrante è stato registrato per la prima volta. Ma con buona pace degli estremisti, la maggior parte di chi giunge nel nostro paese non ha alcuna intenzione di restarci, poiché le mete da raggiungere sono i paesi del Centro e Nordeuropa, per ricongiungersi alle famiglie lì residenti.
Il secondo tratto che sottolinea le capacità manageriali dei gruppi che organizzano il traffico è un sistema di catalogazione e riconoscimento alfanumerico per i migranti. Quei codici servono a spostare come pacchetti centinaia di persone alla volta e fare in modo che le quote del «mercato» vengano distribuite in modo equo tra tutti gli operatori. I migranti si comprano e si vendono anche a seconda della disponibilità delle barche. Grazie a questo sistema, la Cupola può arrivare dappertutto e bucare non soltanto le frontiere dei paesi europei, ma anche quelle degli Stati Uniti, con clienti da portare a destinazione grazie a documenti e permessi falsi da ottenere al confine con il Messico.
Il codice che identifica ogni migrante assolve anche ad altre due funzioni. Prima di tutto, quel codice viene fornito ai parenti del passeggero, che in qualsiasi momento possono contattare i membri dell’organizzazione criminale per avere notizie del viaggio intrapreso dal loro congiunto. Il codice consente anche il controllo della correttezza dei flussi di pagamento. Il viaggio non viene pagato in una sola tranche. Il versamento va effettuato in rapporto a ogni singolo passaggio della tratta complessiva prevista. I codici attribuiti ai migranti consentono all’organizzazione criminale di avere un quadro aggiornato in tempo reale dei flussi di cassa, delle spese effettuate per sostenere ogni singolo spostamento e per distribuire i profitti, secondo un criterio logico, a ogni componente del sistema criminale. Sino ad oggi non sono stati ritrovati i libri mastri di tale contabilità, ma la prova dell’esistenza di questo meccanismo contabile è fornita dalle intercettazioni telefoniche compiute a carico dei capi dell’organizzazione.

Ermias Gharay è uno dei membri più influenti di questo racket. Gli investigatori del Servizio centrale operativo della polizia di Stato hanno raccolto le sue conversazioni al telefono con membri e fiancheggiatori del suo clan. In un colloquio avvenuto qualche ora dopo la partenza di uno scafo per le coste italiane, Ermias, al telefono con uno dei suoi soldati, spiega che «mancano dei codici che ancora non mi sono stati mandati». Il suo interlocutore gli chiede quanti ne abbia ricevuti fino a quel momento. Il trafficante sostiene di avere ricevuto soltanto 39 codici, quindi elenca i numeri e i nomi dei viaggiatori che non gli sono stati ancora comunicati, indicando anche la somma da recuperare: «40 è Berhe Kiflu 600, poi codice 1 Habtom Teklay 1800, 2 Fortuna Emhatsion 50, 3 Yonas Tesfalem 1900, 4 Bereket Habte 1950, 5 Daniel Teklay 1900, 6 Hagos Gebrezgabihar 1900, 7 Samiel Gebre 1800, 8 Sham Bereket 1850, 9 Solomon Wolday 1800…».
Scoprire l’esistenza di questo network ha richiesto un lavoro investigativo complesso. Per anni, il principale obiettivo nel contrasto del traffico dei migranti stava nell’individuare come unici responsabili i cosiddetti scafisti, cioè le persone che erano materialmente alla guida delle imbarcazioni verso le coste italiane. Ma anche su questo fronte, nonostante i proclami del governo di Roma, i risultati del contrasto sono stati abbastanza deludenti. I dati sulla lotta al racket dei migranti nel nostro paese, per quel che riguarda il capitolo scafisti, sono contenuti in due documenti internazionali. Il primo, pubblicato nel 2014, è stato redatto dal Consiglio per i diritti umani delle Nazione Unite. Nella relazione conclusiva dedicata all’Italia, l’inviato dell’Onu Joy Ngozi Ezeilo individua i punti deboli del nostro sistema: «La legge prevede pene severe per i reati connessi alla tratta, tuttavia le percentuali di condanna sono molto basse». Il diplomatico elenca i dati ufficiali forniti dal ministero della Giustizia: «In Italia attualmente si contano 154 persone condannate per il reato di tratta: 70 hanno ricevuto sentenze che vanno dai 5 ai 10 anni, altri 45 invece sono stati puniti con periodi di carcere più lunghi». Fornire le prove nei processi non è semplice, perché, se al momento delle indagini tanti sono pronti a testimoniare, puntando il dito contro i timonieri dei barconi, in fase di dibattimento – quasi sempre anni dopo – è difficile rintracciare profughi e migranti per portarli in aula. Anche il gruppo di esperti del Consiglio d’Europa contro il traffico di esseri umani sottolinea le criticità delle indagini sugli scafisti. Nel rapporto del 2013 costruito sull’analisi dei procedimenti penali comunicati dalla Direzione nazionale antimafia in relazione ai tre articoli del codice penale relativi al «traffico di uomini», si ricorda come 214 procedimenti siano stati avviati nel 2012 (contro 484 indagati), mentre l’anno prima, con il grande esodo accentuato dalle «primavere arabe» c’erano state 228 inchieste contro 774 persone. Numeri simili per gli anni precedenti: il massimo è stato toccato nel 2009 con 271 istruttorie contro 1.072 sospetti. Insomma, la grande attività investigativa ha prodotto risultati scarsi. Il Consiglio d’Europa evidenzia come nel 2010 ci siano state solo 14 condanne, 9 l’anno successivo. È abbastanza evidente che serve cambiare passo, soprattutto ora che le inchieste hanno dimostrato l’esistenza di sistemi criminali organizzati. Questa è una scoperta investigativa abbastanza recente. Ma ora sappiamo che gli scafisti non sono altro che pedine di un gioco molto più complesso. In alcuni casi, si tratta di migranti che non potendo pagare il costo del transfert vengono messi alla guida delle barche per remunerare l’organizzazione.

La svolta avviene con la strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013. L’allarme per un naufragio avvenuto a pochi metri dalla costa viene lanciato dalla Guardia costiera nelle prime ore del mattino. Quando le forze dell’ordine arrivano sul posto e iniziano a raccogliere le dichiarazioni dei primi sopravvissuti, appare evidente la dimensione di una delle più grandi tragedie della migrazione. Sulla barca affondata erano presenti quasi cinquecento persone. Il viaggio era iniziato la notte prima dal porto libico di Misurata. Quel peschereccio, una volta giunto nei pressi della costa di Lampedusa, aveva iniziato a imbarcare acqua. Secondo le testimonianze dei sopravvissuti, i soccorsi non arrivavano e per questa ragione uno degli scafisti, per attirare l’attenzione di alcune motonavi, aveva dato fuoco a una coperta, cospargendola con del gasolio, per usarla come segnalatore visivo. È scoppiato così l’incendio sul ponte del peschereccio, con i migranti che si spostavano in massa verso un’altra zona dell’imbarcazione e ne causavano il capovolgimento. Alla fine si conteranno 366 vittime.
Qualche giorno dopo il naufragio viene arrestato Khaled Bensalem (ḫālid bin Sālim), unico cittadino tunisino a bordo dell’imbarcazione naufragata. I sopravvissuti sono concordi nell’indicarlo come uno degli scafisti. Ma questa volta, il racconto dei superstiti va oltre. Si scopre così l’esistenza di una struttura molto ben organizzata e viene identificato il capo del gruppo criminale che ha preparato quella traversata finita in tragedia. Si chiama Ermias Ghermay. I testimoni ricostruiscono con precisione le tappe del viaggio che hanno compiuto e le procedure cui sono stati sottoposti. Lo spaccato che emerge disegna un sistema complesso. La filiera parte dal Sudan, dove Ghermay, dalla capitale Khartum, raggruppa una consistente parte di quei migranti. L’organizzazione provvede a far attraversare il deserto al gruppo. Una volta trasferiti i migranti a Tripoli, il network criminale li tiene nascosti in una fattoria per alcune settimane. Il periodo a Tripoli è definito dai testimoni come «sequestro», in condizioni di vita tipiche del regime carcerario. Grazie ai codici di identificazione, i criminali tengono aggiornato il libro paga. Dopo aver pagato la traversata nel deserto, ora i migranti (o i loro parenti) devono versare la quota relativa al viaggio in mare. Senza il pagamento di quel pedaggio non si parte. Una volta concluse le operazioni finanziarie i migranti vengono imbarcati sulle navi. Nel caso specifico, quel gruppo di cinquecento persone è in procinto di andare verso il naufragio, che si consumerà a poche centinaia di metri dalla costa di Lampedusa.
Questo modus operandi risulterà in seguito costante, ripetitivo e consolidato nel tempo per la quasi totalità dei viaggi di migranti che seguono le rotte dal Nordafrica. Nasce così l’ipotesi investigativa che punta a dimostrare l’esistenza di un network criminale transnazionale composto da sudanesi, eritrei ed etiopi. E quasi in modo speculare, nel prosieguo delle indagini, spunteranno le cellule operative, composte da cittadini eritrei residenti in diverse città italiane. Tocca a loro mettersi a disposizione dei migranti che sono arrivati nel nostro territorio, per favorirne la permanenza illegale e agevolarne il successivo espatrio, sempre illegale, verso altri paesi dell’Unione Europea o del continente americano. Attraverso il racconto dei sopravvissuti alla strage di Lampedusa e dei loro parenti che saranno rintracciati in Africa dagli investigatori italiani si possono ricostruire le competenze operative del racket dei trafficanti di esseri umani.
Weldezghi Kelat Kelta è il fratello di uno dei sopravvissuti al naufragio dell’ottobre 2013. A bordo c’era anche sua sorella, morta durante la traversata. Kelta racconterà di essere stato contattato telefonicamente da Ermias, che gli comunicava di provvedere al trasferimento in Italia dei suoi fratelli, dietro pagamento della somma totale di 3.200 dollari. Ermias fornirà un’utenza telefonica cellulare per essere contattato.
Dal racconto dei migranti si comprende il carico di violenza esercitato nei loro confronti dai membri delle reti criminali. Tutti concordano nel raccontare continue violenze fisiche e torture: dall’utilizzo di manganelli sulle piante dei piedi alle scariche elettriche, al soffocamento. Il gruppo di migranti racconta anche di essere stato sequestrato dalle forze libiche. Le donne riferiscono di stupri ripetuti, non solo da parte dei componenti del gruppo criminale ma anche da parte di altri soggetti, in genere poliziotti libici, ai quali le donne vengono «offerte in dono» dai trafficanti in occasione delle loro visite presso la fattoria di Ermias, luogo di detenzione dei migranti prima dell’imbarco verso la Sicilia. Così Fanos Okba, una ragazza eritrea di 20 anni, racconta la sua storia: «Nel mese di luglio scorso, insieme ad altri miei compagni, all’incirca 130 di cui 20 donne, mentre eravamo in marcia nel deserto tra Sudan e Libia siamo stati fermati e costretti sotto minaccia di armi da fuoco a salire in alcuni furgoni. A piccoli gruppi, siamo finiti in una casa sita nella città di Sabhā gestita da circa 50 uomini di origine somala e sudanese. Dopo averci rinchiusi in una grande stanza ci hanno prelevato uno per uno, ci hanno privato dei nostri effetti personali e con il nostro telefono cellulare hanno chiamato i familiari per richiedere un riscatto per la nostra liberazione. Preciso che eravamo costretti a stare in piedi per tutta la giornata e che ci obbligavano a vedere i nostri compagni mentre venivano torturati con vari mezzi, tra cui manganelli, scariche elettriche alle piante dei piedi; nel peggiore dei casi chi si ribellava veniva incaprettato in modo che anche un minimo movimento creasse un principio di soffocamento. I nostri sequestratori, dopo avere richiesto riscatti che andavano dai 3.300 ai 3.500 dollari per ognuno di noi, ci tenevano prigionieri nella stanza fino a quando i soldi da loro richiesti venivano accreditati sui conti bancari che fornivano ai nostri familiari. Per me, il somalo in questione ha chiesto e ricevuto da mio fratello, che vive in Israele, 3.400 dollari. Ci mettevano poi in libertà a gruppi di 25 e successivamente, dopo averci caricati a bordo di un furgone, ci accompagnavano fino a Tripoli.»
Fanos spiega anche come ha fatto a imbarcarsi: «Dopo che è stato pagato il mio riscatto, per raggiungere la Libia ho fatto un viaggio in due tappe. Prima sono stata caricata su un furgone, insieme a un’altra quindicina di persone. L’autista ha ricevuto diposizioni dal somalo. Questi ci ha poi consegnati a un altro autista che ci ha condotti direttamente da un tale di nome Ermias, in una casa nei pressi di una spiaggia. Per il trasporto in Italia mi ha chiesto 1.600 dollari. Io ho chiamato mio fratello e gli ho passato Ermias, che gli ha comunicato un numero di conto bancario dove effettuare il versamento. Dopo quattro giorni ho saputo che il pagamento era stato effettuato. Siamo rimasti a Tripoli per circa un altro mese fino al giorno in cui siamo stati imbarcati per Lampedusa sul barcone poi naufragato». Altri dettagli interessanti sono forniti da Alay Bahta, un altro superstite del naufragio di Lampedusa. Parlando del viaggio attraverso la Libia, Alay spiega che occorreva superare i check points gestiti dalle varie milizie che si contendono il territorio: «Noi viaggiavamo a bordo di grossi camion. Fummo fermati da uomini a bordo di alcuni pick-up con mitragliatrici installate sul tetto e da lì trasportati nella casa di Sabhā di cui ho parlato. Il viaggio da questa casa dove sono stato tenuto prigioniero per alcuni giorni fino a Tripoli fu effettuato cambiando cinque diversi mezzi di trasporto. L’operazione era gestita sin dall’inizio dal gruppo che ci aveva sequestrati. Infatti in occasione di ogni cambio di autovettura gli autisti sapevano a che ora e in quale luogo effettuare il cambio. Quando siamo arrivati a Tripoli ci siamo informati tramite nostri amici in Sudan su chi fosse la persona che organizzava viaggi per la Sicilia. Ci è stato detto che a Tripoli operava Ermias. Così lo abbiamo contattato al telefono e lui ci ha fatto venire a prendere e ci ha portato presso un’abitazione nella sua disponibilità».

Ermias è soltanto uno dei principali operatori di questi traffici di esseri umani. Secondo la ricostruzione dei magistrati siciliani sarebbero almeno cinque le reti operative ancora attive e in grado di soddisfare le sempre crescenti domande di transfert verso le coste europee.
Un altro personaggio centrale della Cupola che gestisce il racket delle migrazioni è Medhane Yehdego. Gli investigatori italiani sono arrivati sulle sue tracce partendo anche in questo caso dall’inchiesta sulla strage di Lampedusa. Yehdego è ritenuto responsabile, nel solo 2014, di almeno 7 mila sbarchi sulle coste siciliane. Scorrendo gli stralci delle intercettazioni compiute sulle sue utenze è possibile ricostruire altri tasselli delle alleanze e delle regole che reggono la Cupola del traffico di migranti. Yehdego mostra i tratti del bravo negoziatore. Vive a Tripoli, vicino al quartiere al-Andalus, quasi in riva al mare, dove ogni domenica pomeriggio riunisce il suo «consiglio di amministrazione». Di sicuro è uno dei leader. Il suo rango si percepisce sia dalle relazioni che mantiene con la polizia locale sia dall’ossequio riservatogli dai suoi interlocutori. Yehdego si paragona a Gheddafi. Parlando al telefono con i suoi collaboratori, sostiene di averne il carisma e le capacità di leadership. È orgoglioso degli uomini che compongono la sua organizzazione. Li ha scelti uno per uno e al vertice del suo gruppo criminale, proprio come faceva il colonnello deposto nel 2011, ha piazzato soltanto parenti e fedelissimi. Ma è un metodo che ricorda anche i processi di cooptazione delle famiglie mafiose italiane.
Yehdego ha rapporti con le forze libiche. I suoi dialoghi con il dottor ‘Alī – probabilmente un esponente delle forze di polizia stanziate a Tripoli – potrebbero dimostrare la partecipazione al business dei migranti di gruppi paramilitari. Perché ‘Alī, parlando con Medhane Yehdego, smette la divisa e indossa i panni del trafficante di esseri umani. E si lamenta di non avere ricevuto il giusto compenso per i servizi resi: «Se non avrò i miei soldi, saprò cosa fare», urla al telefono. I due litigano sul prezzo dei migranti. È proprio questa genere di relazioni a far ipotizzare che parte dei fondi accumulati dai trafficanti finiscano nella disponibilità di miliziani libici, jihadisti o meno.
L’intero network finanziario criminale ha canali in entrata e in uscita. I migranti pagano con il metodo dei trasferimenti moneygram o con il sistema ḥawāla. Il gruppo dei trafficanti riceve fondi da tutti i continenti. Le tracce delle operazioni finanziarie portano anche in America, Inghilterra, Germania, Norvegia e Israele. Nella ricostruzione della magistratura italiana, il tesoro dei trafficanti finisce per essere depositato in conti segreti a Dubai (sede logistica di primaria importanza per questi network), in attesa di essere reinvestito in Nordeuropa. Ma come ogni mafia che si rispetti, anche la Cupola che gestisce il traffico dei migranti mostra le prime crepe. Spunta il primo pentito. Si chiama Nuredin Atta Wehabreri ed è stato arrestato nel luglio 2014 sempre per il filone di indagine partito dalla strage di Lampedusa dell’ottobre 2013. Per anni ha fatto il basista in Italia, seguendo il percorso dei migranti dal momento dello sbarco sino al trasferimento in Italia e in altri paesi d’Europa. Wehabreri era in grado di procurare tutto, dai documenti falsi ai certificati di matrimonio contraffatti per ottenere permessi temporanei. È il primo trafficante a raccontare in presa diretta le attività della Cupola dei migranti e conferma, nei fatti, le intuizioni degli inquirenti italiani. Quel pentito della mafia delle migrazioni è il primo grimardello per scardinare il sistema criminale. Di sicuro ha un effetto maggiore delle bombe, quelle vere, che l’Unione Europea intende lanciare contro le coste del Nordafrica per fermare le rotte delle migrazioni.

[/vc_column_text][/vc_accordion_tab][vc_accordion_tab title=”Paesi di origine e paesi di arrivo”][vc_column_text]tabella[/vc_column_text][/vc_accordion_tab][vc_accordion_tab title=”COSI’ PARLANO I TRAFFICANTI – La trascrizione delle intercettazioni di una riunione di trafficanti”][vc_column_text]

Di Piero Messina – Limes N° 6 2015Negli ultimi tre anni, le attività della magistratura italiana hanno consentito di raccogliere centinaia di conversazioni telefoniche tra le utenze dei capi del network che gestisce il traffico di esseri umani. Come si è arrivati a scoprire quei collegamenti telefonici, realizzati sia con telefoni satellitari, sia con i software Skype e Viber? La perfetta macchina organizzativa dei gruppi criminali ha commesso un errore: diffondere i numeri telefonici dei propri componenti. Questa prassi, secondo quanto hanno scoperto gli investigatori, era dovuta alla necessità di fornire ai propri clienti un contatto in qualsiasi momento del viaggio. Così, gli investigatori italiani – anche grazie alla testimonianza di numerosi migranti – hanno ricostruito la rete dei contatti tra soggetti che, tra l’Africa e l’Europa, organizzano e gestiscono quei traffici. Si tratta, perciò, di materiali di indagine contenuti nei provvedimenti Glauco e Glauco 1, ordinati dalla Direzione distrettuale antimafia della procura della Repubblica di Palermo a firma dei sostituti procuratori Gery Ferrara e Claudio Camilleri e del procuratore aggiunto Maurizio Scalia. Quei documenti sono stati raccolti grazie al lavoro del Servizio centrale operativo della polizia di Stato. Le telefonate sono avvenute in un arco temporale compreso tra l’ottobre del 2013 e il luglio del 2014.

Per rendere intellegibile al lettore il clima che si respira all’interno di quei gruppi criminali, è stato ideato un espediente narrativo che consente la lettura in sequenza di alcune tra le più importanti conversazioni registrate. Queste le istruzioni per l’uso: abbiamo immaginato l’esistenza di una società vera e propria, costituita a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, allo scopo di migliorare le performance operative di quel sistema criminale. La collocazione geografica di questa società immaginaria a Dubai ha un appiglio diretto nelle risultanze investigative. La piazza emiratina è utilizzata dai trafficanti per acquisti di beni da utilizzare nei traffici (automobili e mezzi di comunicazione) ed è probabilmente la piattaforma finanziaria dove vengono nascoste le grandi quantità di denaro accumulate.
Così, abbiamo immaginato di avere tra le mani un verbale del consiglio di amministrazione di quella società immaginaria. Perciò il redattore ha dovuto in parte rielaborare i testi di quelle telefonate, senza tuttavia mai stravolgerne il senso o il contesto. I personaggi sono reali. Per dovere di cronaca, ricordiamo che l’audio originale di quelle telefonate finite nei fascicoli giudiziari è in tigrino, lingua di origine semitica molto diffusa tra le popolazioni dell’Eritrea e dell’Etiopia, o in arabo.
Ultime note. La prima: l’aver collocato la riunione del consiglio di amministrazione in una precisa zona della capitale libica non è arbitraria, ma un’indicazione fornita da migranti che più d’una volta hanno assistito, proprio in quei luoghi, a riunioni operative tra soggetti oggi indagati dalla magistratura italiana. Infine, la data scelta per lo svolgersi di questo consiglio non è affatto casuale. Si tratta del giorno successivo alla strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013, quando morirono 366 degli oltre 500 passeggeri di un peschereccio giunto in prossimità delle coste siciliane. Di quell’incidente parleranno via etere e via satellite alcuni tra i più pericolosi mercanti di morte che operano tra l’Africa e l’Europa. Quei dialoghi si possono leggere qui di seguito, raccolti sotto forma di «verbale».

L’anno 2013, il giorno 4 di ottobre, per volontà dell’amministratore delegato si riunisce in Tripoli, in località al-Andalus, il consiglio di gestione della società Ts consulting e trading per discutere dei piani di sviluppo del gruppo alla presenza dei cinque soci di maggioranza. All’assemblea partecipano in videoconferenza i consiglieri delegati per le regioni europea e americana.

Qui di seguito vengono riportate a verbale le dichiarazioni dei componenti del vertice aziendale.

Ore 9,30. Prende la parola John in videocollegamento dall’isola di Lampedusa: «Io sono ancora qui sull’isola. Aspetto che la polizia italiana finisca l’interrogatorio di Khaled Bensalem, il pilota della nave naufragata ieri sera». Dalla sede di Tripoli si chiedono a John notizie sul clima generale. John: «La situazione è molto complicata. Siamo sull’isola da 28 giorni e in questo periodo sono arrivati due scafi della compagnia concorrente. È un peccato perché noi attendiamo i nostri clienti mentre gli altri continuano a mandare gente».

Da Tripoli, l’amministratore delegato chiede notizie sul carico della nave naufragata ieri mattina. John afferma: «Non ci sono responsabilità particolari da parte di chi ha pianificato quel viaggio. Lo conosco molto bene, è una persona preparata. Prima di ogni partenza studia le condizioni meteo e lancia i nostri clienti in mare aperto direttamente con gommoni piccoli verso la nave madre. Insomma, abbiamo fatto del nostro meglio e ciò che è successo è dipeso solo dal destino. Alcuni dei nostri assistenti a bordo del barcone naufragato non si sono però dimostrati all’altezza. Non hanno collaborato perché erano molto giovani e si sono fatti prendere dal panico».

Da Tripoli, il consigliere delegato per gli affari con il Sud Italia chiede la parola: «Secondo quel che abbiamo saputo sono stati commessi almeno due errori. Il primo è stato quello di buttare via il telefono satellitare in dotazione, il secondo, accendere il fuoco per segnalare la propria posizione alle autorità italiane e chiedere soccorso senza prima avvisarci». John ribatte: «Ma cosa avremmo potuto fare se avessimo tenuto il satellitare?». Da Tripoli rispondono: «Almeno avreste potuto provare a chiamare in Libia e attendere le nostre indicazioni». John, in collegamento da Lampedusa: «È stata solo una fatalità. I nostri clienti erano quasi arrivati, dovevano solo attendere i soccorsi. Ma ora cosa facciamo con i parenti dei nostri clienti? Come facciamo a dire che sono morti a centinaia?».

Da Tripoli, il consigliere delegato per il Sud Italia risponde: «Va bene, è stato il destino. Non c’è più nulla da fare. Per i parenti basterà verificare il registro dei codici delle partenze e comunicare quel che è successo ai loro cari. Intanto, voglio sottoporre all’assemblea un altro aspetto. Questo naufragio, alla fine, potrebbe persino rivelarsi utile per i nostri affari. Per i soccorsi, l’Italia ha ricevuto dall’Europa 41 milioni di dollari. Questo vuol dire che da ora in poi saranno più celeri e probabilmente non ci sarà più bisogno di arrivare sino alle coste e sbarcare. Per questo ti abbiamo detto che il satellitare non andava gettato. Da questo momento in poi, le procedure cambiano. Le nostre imbarcazioni mireranno sempre su Lampedusa ma dobbiamo organizzarci in maniera tale che i soccorsi avvengano in acque internazionali. Questo ci consentirà di risparmiare sul carburante e potremo utilizzare imbarcazioni meno sicure. D’altronde è quasi normale perdere ogni tanto un carico di clienti».

Chiede la parola il responsabile tecnico della tratta Tripoli-Lampedusa (a questo punto possiamo affermare con ragionevole certezza di conoscere l’identità di quel manager: si tratta di Ermias Ghermay). Ecco che cosa dice Ermias: «Ho ricevuto parecchie telefonate dai parenti delle vittime. Ormai tutti sono avvisati quindi credo che non ci saranno più problemi. Però devo dire a tutti i colleghi e soci che quel che più mi fa arrabbiare di questo incidente è il fatto che il naufragio non è da addebitare alle condizioni meteo, ma ai soccorsi. Un agricoltore può accettare che il suo raccolto non vada bene a causa della siccità, ma non all’incuria nel periodo della raccolta».

Prende la parola John da Lampedusa: «A mio parere bisognerebbe essere più prudenti e non caricare più di 250 persone sulla stessa barca». Ermias risponde così: «Lo sai come si fa. E poi a Tripoli c’erano tante persone che volevano partire. Mi disturbavano, insistevano per salpare subito. E poi va anche considerato che il proprietario del casolare dove avevo radunati i migranti prima della partenza non era più disposto a ospitarli, li avrebbe cacciati così su due piedi. La mia intenzione era farli partire in due viaggi, ma vista la loro insistenza e che nessuno era disponibile ad attendere il secondo, è stato necessario organizzare un solo barcone». A questo punto Ermias ricorda a tutti i soci dell’azienda le regole previste dallo statuto societario: «Quando si organizza un viaggio per l’Italia si devono rispettare determinate condizioni. In primo luogo, le partenze non devono avvenire con il mare in tempesta e in secondo luogo non bisogna dare adito alle lamentele dei migranti. L’organizzatore del viaggio è il responsabile, lui deve sapere aspettare il momento giusto per partire». Poi Ermias continua: «Questa volta è andata così, c’erano molti migranti in gruppi e non volevano dividersi. Avrei potuto chiamare la polizia libica così da farli arrestare o scappare, tanto il denaro era già stato incassato, ma poi ho deciso di farli partire senza creare problemi». E ancora: «In un viaggio possono accadere tante cose: essere arrestati o non riuscire a partire per tanti motivi che solo Dio può sapere. Però quando i migranti vengono rapiti sono costretti a pagare un riscatto molto caro. In questi casi noi dobbiamo intervenire e mediare con i rapitori».

Il testo del verbale continua con l’ennesimo intervento di John: «La colpa è loro (dei migranti, n.d.r.) perché sono voluti partire in tanti, e non tua. Se avessero chiamato mentre erano in viaggio si sarebbero salvati, ma loro erano già entrati nel porto, a distanza di 800-1.000 metri da terra. Il capitano non doveva bruciare il lenzuolo per farsi notare. Tu hai fatto del tuo meglio. Le barche vengono controllate dal satellite. E hanno sbagliato a mettersi da un lato sbilanciando la barca e facendola affondare».

Nel documento si prende poi atto della risposta di Ermias: «Hai più esperienza di me, quindi devi consigliarmi sui viaggi, su come organizzarli: viaggi nel deserto e scelta della barca giusta. Ecco, ora vi spiego che tipo di barca abbiamo usato per il viaggio del 3 ottobre. La barca si chiamava Giraffa ed era lunga 96 metri. C’erano 7 cuccette e il bagno. Ma le persone a bordo erano troppe. Altrimenti questa barca non si sarebbe potuta rovesciare. Purtroppo la gente non capiva che non poteva sedersi dove voleva. Lo spostamento delle persone in un unico punto della nave ha creato lo sbilanciamento e il rovesciamento». Ermias ricorda: «Ogni cinquanta persone c’erano due rappresentanti per dare le giuste direttive. Proprio per questo motivo ho dedicato quattro ore a dare le giuste informazioni alle persone su come comportarsi a bordo, assegnando un posto a ciascuno. Se ogni persona che è imbarcata si muove da un lato all’altro della barca è chiaro che questa si rovescia». Ermias fa un’altra considerazione: «Se gli italiani che si trovavano a 800 metri non hanno potuto fare nulla, io che cosa avrei potuto fare?».

A questo punto il verbale presenta degli omissis. Da quel che si intuisce, la riunione è sospesa per un paio d’ore. Il documento riprende con le dichiarazioni di un altro componente del consiglio di amministrazione.

Si tratta di Medhane Yehdego. Dalla lettura delle sue dichiarazioni, sembra che Yehdego abbia intenzione di dimettersi dal direttivo della compagnia per trasferirsi in Nordeuropa, presumibilmente in Svezia, dove già risiede il suo nucleo familiare. Per queste motivazioni, Yehdego, abile mediatore con la polizia libica, chiede anche suggerimenti su come investire il suo denaro: «Che tipo di problemi posso avere nella gestione dei miei soldi?». Prende la parola ‘Abduh: «L’importante è utilizzarli con attenzione, senza dare nell’occhio. Se poi hai deciso di andare in Svezia, ricorda che quel governo controlla tutti i passaggi bancari e fanno molte domande su tutto». «E se invece andassi a Dubai?», chiede Yehdego. «Una volta che ho ottenuto i documenti per vivere in Svezia, non potrei andare a Dubai, mettere i soldi in banca e rientrare in Europa?». ‘Abduh risponde: «Non ci sono problemi, basta mettere i soldi in una banca internazionale, comunque è consigliabile farsi aiutare da una persona che ormai vive da tanto tempo lì ed è in regola, per cui non dà sospetti». Yehdego si rivolge ai suoi soci e afferma: «Sono molto stanco di fare questo lavoro». Il trafficante ricorda che nell’ultimo viaggio organizzato «la barca era un po’ in difficoltà perché c’erano tante persone a bordo e sono arrivate delle navi libiche che hanno sparato. Si sono avvicinati. A quel punto quelli che portavano la barca si sono nascosti. Loro hanno convinto i libici a lasciarli andare e così sono riusciti a continuare il viaggio. Dopo è arrivata una grande barca italiana dove loro sono saliti per essere salvati».

A questo punto il verbale, fin qui trascritto in tigrino, presenta alcune pagine in lingua araba. A prendere la parola è un certo ‘Alī, collegato via Skype. Dopo aver sentito delle intenzioni di Yehdego, che si è dichiarato pronto a lasciare il gruppo, ‘Alī, nel rivolgersi al socio dimissionario afferma: «Prima prendevo 1.000 dollari a persona, adesso ne ricevo soltanto 400. Così stai volutamente rovinando il mercato. In passato, altri avevano abbassato la quota sino a 300 dollari, ma ora questo comportamento non è più accettabile». La replica di Yehdego non si fa attendere: «Ci sono altre persone che sono pronte a prendere il tuo posto». Si tratta di affari con dollari da gestire sull’unghia e a questo punto inizia una trattativa. ‘Alī tenta di salvare la sua quota di mercato: «Non andrai sicuramente in rovina se mi paghi 400 dollari per ogni persona. Ho a disposizione una carcara (probabilmente un’imbarcazione, n.d.r.) capace di contenere 1.500 persone».

Il clima della riunione torna sereno. L’ultimo stralcio che riusciamo a leggere è il saluto di Yehdego all’interlocutore libico: «Ciao, generale»

[/vc_column_text][/vc_accordion_tab][/vc_accordion][/vc_column][/vc_row]