[vc_row][vc_column width=”1/1″][vc_column_text]Cosa c’entra il muro di Berlino con Renzi? Forse niente, ma avevo voglia di scrivere sull’importanza del prossimo referendum.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column width=”1/1″][vc_accordion active_tab=”10″ collapsible=”yes”][vc_accordion_tab title=”LA STORIA”][vc_column_text]

9 novembre 1989: ancora non sapevo che per me, fresco sindacalista a tempo pieno, stava iniziando uno dei periodi più duri della mia vita professionale. Nelle poche settimane che ci separavano dall’immacolata avremmo proclamato l’assemblea permanete, con sciopero, alle Arti Grafiche di Bergamo. Un’esperienza per me decisamente traumatica, che avrebbe però segnato positivamente tutta la mia successiva esperienza sindacale. Dopo quei giorni il mio fare sindacato non sarebbe stato più lo stesso.
9 novembre 1989: ancora non sapevo che la caduta del muro di Berlino avrebbe innescato un fragoroso cambiamento di dimensioni planetarie.
In quei giorni si spezzavano le catene ideologiche che avevano diviso il mondo in due blocchi; la voglia di libertà e di autodeterminazione si diffondevano come vento impetuoso nel blocco sovietico e, di lì a poco, avrebbe spazzato l’intero pianeta. Crollava un ordine bipolare che aveva sorretto il mondo per oltre quarant’anni e tutto cominciava ad assomigliare ad un’immensa pianura nella quale avrebbero potuto circolare liberamente uomini, idee e capitali. Si creavano così le condizioni per la globalizzazione delle economie, dei commerci, ma anche delle paure. Sciolte le catene, prendevano fuoco i Balcani sotto la spinta feroce dell’affermazione delle varie identità oppresse e soffocate per decenni. Negli anni, lo stesso fuoco avrebbe illuminato a più riprese tutti i confini dell’ex impero sovietico: il mondo si stava ridisegnando alla ricerca di nuovi e più complessi equilibri e lo stava facendo usando i pennelli della guerra, della finanza e dell’economia. Per la prima volta, increduli, assistemmo a una immigrazione di massa dai paesi dell’ex blocco sovietico, a partire dall’Albania. Nel 1996, gli immigrati in Italia diventavano 924.500 e, con loro, si accompagnavano le paure di un mondo che diventava sempre più stretto e sconvolto.

Di quel periodo ricordo anche una seconda rivoluzione: quella della tecnologia.
In poco tempo, al fragoroso ticchettio delle macchine da scrivere che proveniva dai vari uffici, si sostituiva il più morbido e ovattato rumore delle tastiere. I personal computer si diffusero in fretta, insieme alle prime ricariche di internet (40.000 lire che i miei figli, allora piccolissimi, si mangiavano nel giro di un paio di giorni). Il mondo diventava più piccolo e disvelava la vita anche dei suoi angoli più remoti e nascosti. Fatti e avvenimenti che prima ci erano sconosciuti cominciavano a bussare alle nostre porte. L’altra parte del mondo cominciava a occupare piano il nostro cortile. Cominciavi a muoverti con più velocità, ma era spuntato un prezzo da pagare. Sui treni per Roma, ricordo, tra le pagine sfogliate dei giornali si inserivano i primi squilli dei cellulari. Guardavamo con malcelata invidia i primi possessori di portatili giganteschi e qualcuno li invitava con impazienza ad abbassare il volume delle suonerie e della voce. Fino a quando, dopo qualche anno, il rumore ci sovrastò e coinvolse tutti. Finirono le interminabili liste di chiamate da fare al rientro in ufficio, ma con loro finì anche la nostra tranquillità: ora dovevi essere pronto e disponibile in qualsiasi momento. Non ci volle molto tempo per capire che mentre le distanze del mondo si riducevano, noi ci allontanavamo sempre di più rinchiudendoci in noi stessi.

L’Europa, nonostante i cambiamenti in atto, procedeva con pachidermica lentezza come se il mondo fosse rimasto quello che era.
L’Italia, che fino ad allora era stata aiutata, protetta, coccolata e asservita perché presidiava il confine dell’occidente politico, si ritrovava da sola in un mondo che dispiegava con forza bruta tutte le sue potenzialità, ma anche tutte le sue contraddizioni. Con la sua economia fragile e con una politica incapace di governare il furioso cambiamento
La Giustizia, fino ad allora distratta, assente o reticente, dava il via a Mani Pulite (e siamo nel 1992), scoperchiando la corruzione di un sistema politico che non si accorgeva di nulla. Sotto il muro di Berlino, con sorpresa di molti, rimasero travolti la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista. La crisi finanziaria dei primi anni 90 non fece che accelerarne la definitiva scomparsa.
La Lega otteneva i suoi primi successi elettorali nel nord più profondo, che pensava di risolvere i problemi e le paure abbandonando il Sud al suo destino. In realtà, nessuno pensava alle giuste risposte che un Nord ormai spaventato si sarebbe aspettato.
Gli eredi della DC iniziavano la loro diaspora e neppure il neonato Partito Popolare di saper frenare quel declino.
Il PCI diventava PDS e si avviava, soltanto sfiorato dalla Magistratura e con intima convinzione, verso la sua prima vittoria elettorale. Nessuno prestava attenzione all’imprenditore di Arcore che nel 1994 scese in campo, lo scompaginò e ridisegnò i tratti della politica italiana.

Iniziava l’era di Silvio Berlusconi, di Prodi e del sistema bipolare.
Non era così complicato: o sceglievi da una parte, oppure votavi dall’altra. Il sistema politico italiano, Centro-Destra e Centro-Sinistra, sembrava aver trovato un suo nuovo equilibrio; l’Italia dava l’impressione di essere pronta ad affrontare le nuove sfide della globalizzazione e del nuovo “disordine” mondiale, ma lo faceva con una politica sì rinnovata, ma molto più impreparata e debole, avendo lasciato troppo spazio a una Magistratura che spesso avrebbe deciso le sorti del paese. Il tempo che scorreva non avrebbe contribuito al riequilibrio dei poteri, anzi: il sistema svelò da subito le sue fragilità. I due schieramenti volavano come falchi feriti alle estremità delle ali. Le alleanze elettorali, che forzatamente dovevano essere fatte, si dimostravano man mano sempre più impossibili e improbabili. Rifondazione Comunista faticava ad accettare le responsabilità del governare e in poco tempo affossò Prodi. La lega minò il Centro-Destra ancora prima degli abbandoni di Casini e Fini. Ulivo e Popolo della Libertà arrancavano di fronte ai problemi, mentre nel paese, diviso esattamente a metà, cominciavano a diffondersi, con la collaborazione dell’Informazione nata da Mani Pulite, il tifo e la partecipazione da stadio.
La Politica non era più l’ambito nel quale risolvere i problemi dell’Italia, ma diventava l’arena nella quale combattere ed eliminare il nemico. Problemi, idee, soluzioni e contenuti erano bazzecole di secondaria importanza. Giustizialismo, anticomunismo e antiberlusconismo diventavano l’unico collante dei due schieramenti e l’Informazione si adeguava comportandosi come un avvoltoio sopra una carcassa. Nascevano lì, nella seconda Repubblica, alcuni germi che ancora infettano la nostra scena politica e, insieme, condizionano ancora il modo sbagliato di porsi, nei suoi confronti, di molti di noi. Nascevano lì le premesse che daranno vita agli scenari di oggi.

E intanto il mondo girava, incurante di noi.
L’11 settembre 2001 irrompeva sulla scena mondiale il terrorismo di Al-Quaeda ed esplodeva non solo sulle torri del World Trade Center di New York, ma nel cuore dei fragili equilibri dell’intero pianeta. E ne saranno sconvolti. Da allora la nostra vita non sarebbe stata più la stessa. Guerre e attentati avrebbero cambiato di nuovo la storia del Mondo. Anche l’immigrazione avrebbe subito una forte accelerazione, fino a raggiungere oggi i 5.000.000 di stranieri residenti in Italia.
Nel 2004 nasce Facebook, poco dopo Twitter. Abbiamo i social network: molti danno fiato alle trombe, si esprimono, urlano, insultano e parlano, ma pochi imparano a comunicare.

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Ad agosto del 2007, lo stesso anno in cui nasce il PD dall’unione tra Ds e Margherita, scoppia una crisi economico-finanziaria, la più grande dagli anni della Grande Depressione del 1929. La crisi, inizialmente solo finanziaria, si trasforma ben presto in una grave crisi economica. La disoccupazione si inarca a toccare livelli mai provati, soprattutto quella giovanile. Il nostro sistema industriale e di piccole imprese viene decimato. Non ne usciremo facilmente: la crisi, che nessun economista ha previsto, è strutturale. Ci vorrà molto tempo per vederla svanire, ma, soprattutto, saremo più poveri di prima. Il nostro debito, la nostra fragile economia, le poche risorse disponibili per gli investimenti, la corruzione, l’inefficienza della nostra burocrazia, sono tutti nodi che si possono sciogliere con il tempo e che ostacolano la crescita e la riduzione della disoccupazione.

Sull’onda del malcontento, generato dagli effetti della crisi e da una politica inadeguata a gestirli, nel 2009 nasce il Movimento 5 Stelle.
Nel frattempo, la nostra classe politica, tutta, incapace anche solo di eleggere un Presidente della Repubblica (sarà rieletto Napolitano), abdica e cede il suo ruolo ai tecnici di Monti. La cura del Professore è veramente da cavallo e raggiunge il suo apice nei tagli alla spesa, nelle tasse e nella riforma delle pensioni.
Dopo un anno di lacrime e sangue, la politica riemerge dal suo silenzio credendo che il peggio sia ormai alle spalle, risolto dall’intervento dei tecnici. Capiranno presto, forse, che non era così.

Nel frattempo gli effetti della globalizzazione, la crisi economica, l’immigrazione, la corruzione, stanno togliendo rapidamente spazio ai partiti degli schieramenti della seconda Repubblica e lasciano campo ai nuovi soggetti politici che sollecitano soprattutto la pancia del paese: il Movimento 5 Stelle e la Lega del nuovo leader Salvini.
Bersani non vince le elezioni e punta sull’impossibile alleanza con Grillo. Nei fatti si suicida, portando con sé tutta la vecchia classe dirigente ex Ds, PDS e PCI.

[/vc_column_text][/vc_accordion_tab][vc_accordion_tab title=”NASCE LA TERZA REPUBBLICA?”][vc_column_text]

Dopo il breve interregno di Letta, l’Enrico, arriva il Sindaco fiorentino.

Si è composto un nuovo quadro politico e i suoi principali protagonisti hanno tutti facce che non ricordano le vecchie Repubbliche. Resiste Berlusconi, ma Forza Italia precipita senza paracadute: l’Uomo catodico e Presidente rossonero, persa l’occasione del Nazzareno, è ormai superato dagli eventi. La leadership del centro-destra se la contenderanno altri.

In Parlamento non siedono più i due schieramenti contrapposti: l’Italia, come il Mondo, è diventata multipolare, compreso l’astensionismo che ha contagiato quasi la metà del Paese.

Ma se andiamo poco più in profondità, ci possiamo accorgere che nella realtà l’Italia e il suo Parlamento sono ancora divisi in due:

  • Da una parte quelli che hanno la consapevolezza che governare è difficile, e comunque ci provano con un progetto credibile; quelli realisti, responsabili; quelli che coltivano ancora la speranza e parlano alla testa e al cuore del Paese.
  • Dall’altra quelli che comunque vada, si oppongono; i malpancisti che usano la demagogia e il populismo; quelli che promettono soluzioni facili che non esistono; quelli che urlano alla pancia del Paese.

Diversamente però dalla seconda Repubblica (e ancora di più rispetto alla Prima), oggi non possiamo più parlare di destra o sinistra, perché responsabili e malpancisti sono trasversali ai vecchi schieramenti. Tra i malpancisti si può annoverare, ad esempio, tutta la Sinistra più radicale, anche quella ancora rimasta nel PD, mentre nei responsabili ci sono pezzi di Centro e di Centro-Destra.

[/vc_column_text][/vc_accordion_tab][vc_accordion_tab title=”CRISI CULTURALE”][vc_column_text]

COME ANDRA’ A FINIRE?
So che non ci sono soluzioni facili per problemi complessi; so che non possiamo credere a chi evoca i problemi senza indicarci delle soluzioni o prospettandoci soluzioni inefficaci o irrealizzabili. Per come siamo messi, so che chiunque ci dovrà governare sarà costretto a una politica di piccoli passi. Non esistono scorciatoie e chi ce le vuole indicare, ci sta raccontando menzogne.
Risolvere questa crisi sarà difficile perché non è solo economica, istituzionale e politica, ma perché la crisi ha intaccato la nostra cultura e i nostri valori.

IL RAPPORTO 2015 DEL CENSIS
“L’identità di un popolo risiede nella sua storia, in tutta la sua storia, in nient’altro che la sua storia” (Benedetto Croce):… è una convinzione condivisibile se pensiamo a come negli ultimi decenni gli italiani hanno via via costruito prima la loro saga di ricostruzione post-bellica, poi il loro inatteso miracolo economico con l’industrializzazione di massa, poi la loro presenza attiva in campo internazionale (dalla costruzione europea all’esplosione del made in Italy). Ma è ancora più condivisibile se pensiamo alla inattesa e collettiva reazione vitale alla prolungata crisi degli ultimi anni, quando, di fronte alla temuta regressione verso la povertà, siamo stati capaci di mettere in campo il nostro “scheletro contadino”: un modello più disciplinato e sobrio di comportamenti individuali e collettivi.

Ma oggi? … C’è da domandarsi come esso si comporti di fronte al problema del se e del come si possa vitalmente riprendere il processo di sviluppo. In realtà nascondiamo una pericolosa povertà di interpretazione sistemica, di progettazione per il futuro, di disegni programmatici a medio periodo; tutte funzioni di cui addirittura non si discute, lasciando il campo a una dinamica d’opinione messa in moto da quel che avviene giorno per giorno. È la vittoria della pura cronaca: il grande contenitore di una inerzia collettiva che si consuma su sè stessa, spesso alimentata dagli eventi mediatici più disparati. Lo dimostra il peso che nella formazione dell’opinione pubblica ha il susseguirsi di corruzioni, di scandali, di contraddittorie spinte a fronteggiarli, di appropriazioni o cessioni di potere, addirittura di notevoli tensioni in quella divisione dei poteri che è architrave del nostro assetto costituzionale. Ed è facile immaginare come la crescita di peso di una cronaca a forti componenti distruttive aumenti la sensazione di una crisi drammaticamente progressiva e dell’avvicinarsi di una crisi di sistema (perché non soltanto economica), con abissale caduta di fiducia e di volontà collettive. Nessuno si accorge che questa continuata invasione della cronaca nella vita quotidiana, non solo non la riempie, ma inietta in essa il virus della sconnessione, della disarticolazione delle strutture e dei pensieri. Forse parlare della nostra come di una società sconnessa è ipotesi a dir poco azzardata, visto il mito della connettività che ci pervade e vista la ricchezza delle connessioni che fanno da rete alla nostra vita di relazione. Ma quel mito e quella ricchezza non riescono a occultare e compensare quel che accade quotidianamente nei due processi di progressiva sconnessione. C’è un processo disarticolazione strutturale del nostro sistema, che è chiaramente:
– segnato anzitutto da una composizione sociale (e da un assetto economico e imprenditoriale) di antica e sempre più intensa molecolarità, dove vincono l’interesse particolare, il soggettivismo, l’egoismo individuale e di gruppo; e dove quindi non maturano valori collettivi, convergenze di intenti e unità di interessi della collettività;
– in questa molecolarità crescono le diseguaglianze fra ceti, gruppi, individui; con distanze interne sempre più evidenti, ma anche con sommerse e significative tensioni sociali (fra i tanti e i pochi, e spesso anche al loro interno);
– si verifica così una caduta della coesione sociale e delle strutture intermedie di rappresentanza che l’hanno nel tempo garantita sia sul piano territoriale, sia su quello della rappresentazione degli interessi; una caduta resa ancora più accentuata dalla strategia di disintermediazione perseguita dal potere politico negli ultimi anni;
– e il bisogno di non restare troppo soli finisce per avere sbocco, in assenza di forme consolidate di coesione sociale, in “piccole coesioni” (emotive o di convergenti limitati interessi) che fanno pensare ad aggregazioni quasi di difesa di confini identitari

Una tale configurazione strutturale della nostra società non può non dare luogo a una sua profonda debolezza antropologica, altre volte ricordata in queste pagine, ma che converrà qui schematicamente richiamare, visto che una società che corre sul filo della sconnessione tende a provocare:
– un letargo esistenziale collettivo;
– dove i soggetti (individui, famiglie, imprese) restano in un recinto securizzante, ma inerziale, impauriti da ogni rischio e con tutte le risorse inagite (dal risparmio alle competenze);
– dove essi si ritrovano anche in una progressiva vuota solitudine, che finisce per essere la cifra della nostra solo apparente e decisamente stravagante modernità (quella modernità di cui si scorge traccia, addirittura visiva, nell’ossessiva simbiosi dei giovani con il proprio telefono cellulare o con il proprio corpo narcisisticamente votato al tatuaggio);
– senza neppure la propensione a coltivare la forza del fattore “desiderio” (spesso, anzi, con una diffusa insoddisfazione dei desideri già esauditi) e quindi con una certa propensione a non voler crescere (che si nota nei giovani come nei quarantenni);
– in sintesi, ne deriva una società a bassa consistenza e quindi con scarsa autopropulsione, in una sorta di “limbo italico” fatto di “mezze tinte, mezze classi, mezzi partiti, mezze idee e mezze persone” (la citazione antica e insospettata è di Filippo Turati).

Ce la Possiamo fare
Perché, …se l’abisso non arriva mai, la ragione sta verosimilmente nel fatto che questa società sconnessa e sempre in pericolo finisce, anche in questo frangente, per fare il suo cammino, il suo carattere, la sua identità collettiva. Accanto alla valorizzazione della sua storia, la società è oggi portata a esprimere una certa dose di invenzione. Sembra apparentemente acquattata nelle banalità della sicurezza di base, sembra ubriaca di cronaca e di presente, sembra dipendente da annunci spesso sbrigativi e improbabili; e invece è capace di innovare, con la determinazione di chi accumula comportamenti, più che esprimere opinioni. Si va così costruendo, nell’indifferenza del dibattito socio-politico, uno sviluppo fatto di basi storiche e di capacità inventiva, un impasto che supera e taglia fuori quell’incattivita contrapposizione tra le presunzioni di modernità e l’arroccamento sullo “strapaese” che avvelena da anni la nostra classe dirigente e che ostacola ogni naturale linea di uscita in avanti.
… Non c’è dubbio, quindi, che siamo una società che, pur in un alto pericolo di sconnessione, riesce a fare storia su se stessa, via via inventando una nuova fase dell’identità nazionale con naturalezza e silenziosa progressione. La nostra è una società che da mesi si interroga sulla sua congiuntura, ma che si ritrova, guardandosi dentro, di fronte a ben più complessi e strutturali problemi, decisa a ricorrere alle sue fondamenta storiche e alle sue silenziose invenzioni, e che sembra poco propensa a esprimere solo domande. Non si affida ad altri, non aspetta risposte e forse rinuncia all’osmosi con le responsabilità politiche e istituzionali che tanto aveva caratterizzato i decenni precedenti o, forse, ne cerca di nuovi. Non si fa quindi soggetto di domanda, casomai presenta una “offerta obliqua”, fatta da quella dinamica spontanea che si considera residuale, quasi un “resto” rispetto ai grandi temi che occupano la comunicazione di massa. È una offerta tutta da capire e sfruttare per le sedi di rappresentanza e di potere, per le quali non sarà facile rendersene conto, perché il nuovo è così obliquo da non entrare quasi mai in una comunicazione di massa quasi sempre prigioniera della cronaca. non basta parlare di due società, di dinamica a due velocità, di doppio binario, ecc.); è forse giunto il tempo di prendere atto che, nei movimenti tettonici che ci portano avanti, “vince il resto”, quel che non accede al proscenio e alle luci della visibilità mediatica

ZYGMUNT BAUMAN … Jackson dice che ci sono delle alternative: le relazioni, le famiglie, i quartieri, le comunità, il significato della vita. Ci sono enormi risorse di felicità umana che non vengono sfruttate. La maggior parte delle politiche realizzate nel mondo dai governi va esattamente nella direzione opposta. Queste politiche raramente vanno al di là della prossima scadenza elettorale, raramente guardano a ciò che succederà fra 20 o 30 anni.
Assistiamo ad un processo di mercificazione e commercializzazione della moralità. I mercati sono abituati ad orientare i bisogni umani, bisogni che in passato non erano soddisfatti dal mercato. Questo è ciò che io indico con l’espressione ‘commercializzazione della moralità’. Il nostro reale bisogno dovrebbe essere prenderci cura dei nostri cari. Credo che tutti noi qui in sala ci sentiamo in colpa perché non riusciamo a trascorrere abbastanza tempo con i nostri cari. 20 anni fa il 60% delle famiglie americane si ritrovava attorno allo stesso tavolo per cenare. 20 anni dopo solo il 20%. Le persone sono più occupate con il loro cellulare, il loro ipad e così via. La nostra vita quotidiana è profondamente cambiata, a causa anche delle tecnologie, che hanno sicuramente prodotto delle cose positive, ma hanno anche creato dei danni collaterali. Se oggi usciamo senza cellulari ci sentiamo nudi. Il confine fra il tempo dedicato al lavoro e quello dedicato alla famiglia è sfumato. Siamo sempre al lavoro, abbiamo l’ufficio sempre in tasca, non abbiamo scuse. Dobbiamo lavorare a tempo pieno. E più si sale nella scala gerarchica meno tempo per sé si ha. Si è sempre in servizio. Ovviamente i mercati e il consumismo non possono riparare questa situazione; possono però aiutarci a mitigare la nostra cattiva coscienza, e lo fanno spingendoci verso l’acquisto, lo shopping, il mercato.
Al tempo stesso disimpariamo altre abilità ‘primarie’. Ad esempio a riconoscere il dolore, il dolore morale, che è molto importante, perché esso è un sintomo, ci aiuta a riconoscere la fragilità dei legami umani. Improvvisamente abbiamo persone che hanno migliaia di amici in internet; ma in passato dicevamo che gli amici si vedono nel momento del bisogno, e questo non è esattamente il caso degli amici che abbiamo in internet. Fino a quando il nostro senso morale verrà mercificato, l’economia crescerà perché messa in moto dai bisogni umani e dai desideri che è chiamata a soddisfare, bisogni e desideri apparentemente ‘buoni’, come dimostrare l’amore per gli altri. I grandi economisti del passato sostenevano che i bisogni sono stabili, e che una volta soddisfatti tali bisogni possiamo fermarci e godere del lavoro fatto. C’era la convinzione che alla fine del percorso avviato con l’inizio della modernizzazione si avrebbe avuto un’economia stabile, in perfetto equilibrio. Successivamente si è presa una strada diversa. Si è inventato il cliente. Si è capito che i beni non hanno solo un valore d’uso, ma anche un valore simbolico, sono degli status symbol. Non si acquistava più un bene perché se ne ha bisogno, ma perché si ‘desidera’.

L’obiettivo quindi diventava sviluppare sempre nuovi desideri negli esseri umani. Ma anche i desideri ad un certo punto si scontrano con dei limiti. Così, il limite è stato superato mercificando la moralità: non ci sono limiti all’amore, non ci sono limiti all’affetto che vogliamo dimostrare agli altri. Responsabilità incondizionata, condita da incertezze e ansie: questo è il motore del consumismo odierno, questo l’impulso che ci spinge a fare sempre di più, a produrre sempre di più. Ma ciò non è possibile, le risorse sono sempre limitate. Forse il momento della verità è vicino. Ma possiamo fare qualcosa per rallentarlo: intraprendendo un cammino autenticamente umano, un cammino fatto di reciproca comprensione.

Se questa è la situazione, e non credo sia migliore di così, sappiamo che ce la possiamo fare, ma sappiamo anche che il quadro politico dovrà forzatamente cambiare o comunque delinearsi in modo più chiaro. La sua ridefinizione non passerà più dai concetti di Destra o Sinistra, ma dalla capacità dei partiti e delle persone di capire come si può rispondere veramente ai problemi della nuova modernità che sono di natura economica, ma anche sociale, morale e culturale.

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Se devo essere sincero posso dirla così:

1. Ad oggi non ho ancora capito il progetto politico del Movimento 5 Stelle. L’unica cosa che mi è chiara è la proposta del Reddito di cittadinanza. Una proposta che personalmente non ritengo realizzabile nelle attuali condizioni, ma, soprattutto, dannosa dal punto di vista culturale: l’assistenza, da sola e generalizzata, non mi è mai piaciuta. Sul resto, il buio. E anche quando l’onestà viene rivendicata e urlata come patrimonio esclusivo (ed era la stessa sensazione che provavo quando la rivendicava il PCI) mi assale uno strano senso di sospettoso fastidio. Se poi la democrazia interna al Movimento è quella che viene immaginata per l’Italia, io non sono con loro. The dark side dell’eredità di Mani pulite e del tutti contro tutti della Seconda Repubblica.

2. Che dire di Salvini: un mare (purtroppo nostrum) di demagogia. Rappresenta bene le paure, ma non le risolve. Ora che da secessionista è diventato un convinto nazionalista, anziché rallegrarmene, mi assale il dubbio che il timone della sua nave sia governato dalla convenienza politica più che dalla coerenza. Sui Migranti vorrebbe fermare il vento con le mani e difendere confini che non si possono tracciare sulle acque del Mediterraneo. Certo, ci vuole più fermezza e più efficienza nella gestione di un fenomeno epocale come l’immigrazione, ma davvero il populismo è l’ultima barca da prendere. Le paure si vincono solo con il coraggio. Una tassazione uguale per tutti con aliquota al 15%: qualcuno gli spieghi che Babbo Natale non esiste. Ho la netta impressione che a lui piaccia stare dov’è: all’opposizione, senza responsabilità e con la possibilità di dire quello che vuole. Governare davvero è l’ultimo dei suoi traguardi: con la demagogia si sfascia, non si governa.

3. Berlusconi: Silvio chi? E’ stato distrutto dal tritacarne giudiziario e mediatico, ma lui ci ha messo molto del suo, compresa l’incapacità di realizzare molta parte dei suoi sogni che aveva trasformato in promesse. Il film è finito e ho come la sensazione che molti dei suoi cambieranno casacca.

4. Il PD, senza Renzi, è destinato alla sconfitta. Nel partito, lo devono capire chi già di sconfitte se ne intende (leggi Prodi, D’Alema, Veltroni, Bersani); lo devono capire, e sono molti, coloro che ancora sperano che Renzi venga travolto dagli avvenimenti. L’Ulivo è stato colpito dalla xylella e non ci saranno le condizioni perché possa essere riportato in vita. Non ci sono alternative ad una alleanza con tutti coloro che nel nostro Paese rifuggono dal populismo e dalla demagogia.
Essere Riformisti (o, se proprio volete, di Sinistra) oggi, significa prendersi la responsabilità di portare la realtà un passo oltre il possibile verso la speranza. I Malpancisti (o, se preferite, la Destra) oggi, sono quelli che nutrono le paure del Paese con altre paure e non avendo progetti, prendono strade che non hanno uscita.
Un passo in avanti, anche uno solo, è l’unico modo per tutelare i più deboli. Renzi lo ha capito, e anche se non tutto è perfetto, anzi, il suo è l’unico progetto politico serio e realizzabile.

OTTOBRE SARA’ UN MESE CRUCIALE
Tra qualche mese saremo chiamati a votare il Referendum sulle Riforme Costituzionali (l’abolizione del bicameralismo perfetto previsto dal Ddl Boschi).

In quella occasione potremo capire quale direzione prenderà il nostro Paese: se potremo ancora cercare di governare responsabilmente il cambiamento, o se dovremo consegnare l’Italia nelle mani dei malpancisti.

Non sono tra quelli che si augurano la vittoria di questi ultimi, così che si possa dimostrare la loro effettiva incapacità di governare. Il “tanto peggio, tanto meglio” non mi è mai piaciuto: sarebbe un disastro.

Mi auguro, invece, una vittoria del PD e di Renzi, e farò tutto il possibile perché questo avvenga: credo sia l’unica possibilità di affrontare il futuro con qualche speranza, pur essendo consapevole che sarà dura scavallare la cima.

Se dovessero vincere i malpancisti, beh: auguri Italia!

Gli ultimi 26 anni di storia potrebbero essere stati migliori di quelli che ci aspettano.

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