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egli ultimi anni il Sindacato (ma qui voglio parlare della Cisl che è anche il MIO Sindacato) sta vivendo una crisi di identità niente male, cominciata con la crisi economica-finanziaria del 2009, ma che si è poi manifestata in modo evidente con l’avvento del Governo Renzi. La crisi economica ha messo in difficoltà i rinnovi contrattuali, e non solo, mentre il nuovo Governo ha di fatto ridotto al minimo i rapporti tra la politica e il Sindacato. In poche parole, è entrato definitivamente in crisi il modello di relazioni industriali, di rappresentanza e di partecipazione alle decisioni del Paese, costruito a partire con gli Accordi Interconfederali del 1992. Era ora.

In questa situazione servirebbero risposte nuove, figlie di un Sindacato capace di leggere e rispondere ai tempi e alle persone che cambiano. Mi accorgo invece, anche se ormai da esterno alla vita sindacale, che le risposte praticate dalla Cisl non sono sempre il risultato della sua storia e della sua capacità di guardare e vedere oltre il contingente. Come se la Cisl stesse smarrendo la sua identità senza essere capace di svilupparla in proposte di nuovo utili per sé, per gli iscritti e per il Paese intero.

L’esempio di questa situazione mi viene dall’Accordo unitario sulle Relazioni Industriali per il quale condivido le considerazioni e il giudizio complessivo di Seghezzi e Tiraboschi di Adapt, anche rispetto agli aspetti positivi dell’intesa:
“Non mancano aspetti positivi: l’interesse verso la partecipazione dei lavoratori, l’importanza assegnata alla bilateralità, la scommessa sul welfare contrattuale, la coscienza della centralità dell’alternanza scuola-lavoro e, più in generale, della formazione, riconosciuta come diritto soggettivo del lavoratore, arma di difesa contro la fluttuazione del mercato del lavoro causata da sistemi produttivi in continua evoluzione tecnologica”.

Ma concordo con loro su almeno tre aspetti critici del documento:

  • 1. “… sui contenuti principali del documento, ovvero le regole, gli assetti contrattuali e il salario… il sindacato non si è mosso molto rispetto a quanto condiviso nel 1993 nella “carta costituzionale delle relazioni industriali” (accordo 23 luglio 1993)”.

    L’importanza del contratto nazionale è e deve rimanere centrale, ma le regole che lo sostengono e consentono il suo rinnovo devono essere chiare. E non lo sono. Bisognerebbe decidere se la cornice del contratto nazionale debba essere “pesante” o” leggera”, ma la decisione non la vedo. Anche l’indice di riferimento per la determinazione degli aumenti salariali è confuso e si sovrappongono produttività e inflazione. Da questo punto di vista ha ragione Bentivogli della Fim: la produttività utilizzata, anche in parte, a livello nazionale penalizza doppiamente le aziende: quelle che la fanno, ma la devono poi pagare anche a livello aziendale, e quelle che non la fanno che in ogni caso la devono erogare. Il vero indicatore dovrebbe essere l’inflazione: se c’è si eroga, se non c’è (o è molto bassa come in questo periodo di crisi) non si eroga o lo si fa nei termini previsti. L’unica produttività che potrebbe incidere, potrebbe essere quella derivante dal cambiamento delle regole del contratto che portano vantaggi per le aziende. Per la contrattazione di livello aziendale, invece, sono almeno due i problemi da affrontare: la sua estensione a tutte le aziende, anche le più piccole, e gli sgravi fiscali ad essa collegati (problema, questo che riguarda anche le grandi aziende in termini di costo del lavoro troppo elevato per i livelli di tassazione applicati). Da questo punto di vista non vedo novità importanti. Personalmente avrei accettato la sfida minacciata dal Governo di applicare dei minimi salariali. Nei contratti nazionali avrei accorpato in un’unica voce quelle relative al salario base (paga base, contingenza, edr varie). Avrei stabilito magari due Minimi salariali: uno valido per le piccole imprese (artigiani e Confapi), e uno per la “grande” azienda, validi, ciascuno, anche per le partite iva. Minimi più bassi di quelli previsti dai contratti nazionali perché sulla parte eccedente, che ovviamente rimane al lavoratore, avrei chiesto al Governo di applicare, anche gradualmente, gli sgravi fiscali (non contributivi) previsti per il salario di livello aziendale. In questo modo, anche le imprese più piccole (attraverso un accordo aziendale, territoriale o di filiera (che preveda anche l’istituzione di un premio legato ai risultati), sarebbero incentivate alla contrattazione aziendale che abbatterebbe il costo del lavoro per l’impresa, dando nello stesso tempo più salario al Lavoratore.
    Ovviamente, questa proposta non è certo l’unica possibile, ma, secondo me, spiega almeno la direzione che bisognava intraprendere.

  • 2. Dicono sempre Seghezzi e Tiraboschi: “Particolarmente stupefacente, infine, è l’esplicita apertura all’attuazione dell’articolo 39 della Costituzione, ovvero l’accettazione dell’intrusione dello stato, della legge, delle procure nell’autonomia collettiva. Per allontanare il fantasma del salario minimo legale mediante l’esigibilità universale (“erga omnes”) dei minimi contrattuali, i sindacati accettano di essere legittimati dal legislatore e non dalle proprie azioni…”. Mentre lo Statuto della Cisl recita: “… ritiene che il movimento sindacale e la sua possibilità di azione si basino su una sola necessaria condizione: l’adesione libera e spontanea dei lavoratori alla organizzazione sindacale e la moltiplicazione della forza organizzativa di questa”.

    La mia valutazione concorda con quella di Pezzotta: “Dopo aver letto alcune valutazioni di dirigenti dell’organizzazione e altri commenti non sono stato convinto della opportunità e necessità di questa proposta. Non voglio farne una questione di storia o richiamare la lezione di Mario Romani, Mario Grandi o della lunga trazione della Cisl su questo tema. Non si tratta di farne una verità, o ignorare le attuali difficoltà del sindacato, ma di ricordare che sulle ragioni fondative dell’organizzazione le mediazioni anche se necessitate dalla situazione o richiamate a sostegno di una strategia producono mutamenti profondi soprattutto quando mettono in discussione i tratti culturali che reggono la proposta del sindacato nuovo. Su un tema di questo genere servirebbe una maggior riflessione, spero che ci si pensi. Rispettare la propria storia significa costruire quel senso storico che dovrebbe orientare l’agire quotidiano”.

    Spero che l’intera Segreteria confederale ci ripensi e riprenda quel filo conduttore così unico e prezioso che ha costruito la nostra storia e che ha permesso alla Cisl di essere il sindacato delle intuizioni che hanno cambiato la storia dell’intero movimento sindacale. La legittimazione per legge può durare come un battito di ciglia e può essere manipolata e intaccata da un qualsivoglia Governo: esattamente il contrario di quanto abbiamo sempre affermato con la nostra autonomia dalla politica.
    Non esiste altra via se non quella del riconoscimento tra le Parti.

  • 3. E poi ci sono aspetti “politici” di tutta la vicenda che Adapt così riassume: “E’ tornata l’unità sindacale. La proposta per “Un moderno sistema di relazioni industriali” presentata ieri a Roma da Cgil, Cisl e Uil la sancisce. Ne svela però anche la principale caratteristica di fondo: è una unità “contro”, piuttosto che progettuale. In particolare contro il governo, che non ha mai nascosto la sua volontà di disintermediazione delle relazioni sociali, da realizzarsi con nuove regole sullo sciopero, una legge sulla rappresentanza e l’istituzione del salario minimo legale. Di fronte al pericolo imminente, la “triplice” sindacale è riuscita a riconquistare una linea condivisa. L’esito di questo sforzo, ovvero il documento di riforma delle relazioni industriali, è però tanto significativo endosindacalmente, quanto inefficace in termini pratici. Innanzitutto perché i contenuti poco dialogano con le proposte degli industriali, con i quali sarebbe necessario approdare a un accordo ai fini di scongiurare il minacciato intervento del governo. In secondo luogo perché mancano quegli elementi di concreta modernità che tanto erano attesi dagli addetti ai lavori”.

    La Cisl si è fatta trascinare fino al collo dentro un atteggiamento tipico della Cgil il cui scontro con il Governo Renzi ha connotati esclusivamente politici e non sindacali. La recente proposta Cgil di uno “Statuto dei Lavoratori” lo dimostra: una proposta irrealizzabile sulla quale costruire una legge di iniziativa popolare e magari anche dei quesiti referendari. Opposizione politica, in barba all’unità sindacale, che sceglie di farsi dire di no da Imprese e Governo con proposte inadeguate, quasi che il vero obiettivo sia lo scontro politico e sociale, anziché la soluzione dei problemi.

La Cisl non può cadere in queste trappole soprattutto se non portano a risultati concreti e allontanano l’Organizzazione dalla sua storia.
Noi siamo la Cisl e non possiamo essere dalla parte di chi vuole sfasciare il paese e consegnarlo nelle mani della demagogia e del populismo.
Possiamo ripartire dando organicità al nostro core business: contrattare, ma non in questo modo e con nessuna speranza di concordare dopo un risultato con le Controparti.
Sui temi più generali, invece, se il Governo si rivolge direttamente ai Cittadini, saltando l’intermediazione anche del Sindacato, facciamolo anche noi, partendo dall’accordo e/o dal consenso con imprese, lavoratori e opinione pubblica su proposte utili e realizzabili.
L’unità sindacale non è necessaria, soprattutto quando non è utile al Sindacato, ai Lavoratori e al Paese.

Siamo sempre stati dalla parte di chi rinnova: noi siamo stati spesso gli innovatori.
Lo possiamo essere ancora, ma dobbiamo fare uno scatto in avanti con coraggio e realismo.
E’ ora di riprendersi e di ricucire nel presente il filo che lega il nostro passato con il prossimo futuro.

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