L’8 marzo dedicato a una Donna del Marocco

F

atimah ha ormai settant’anni. Ha uno sguardo bello e profondo con i colori aspri della sua terra. Viene dal Marocco.
La conosco da un anno.

Quasi ogni sabato apro lo Sportello lavoro, nella sede delle Acli, di fianco al mercato che a fine settimana rianima l’antico cortile della Misericordia. Quasi ogni sabato lei è lì, seduta sul piccolo gradino sul quale si affaccia la vetrina della sede, e chiede l’elemosina.
Ricordo il sorriso che mi ha accolto la prima volta che ci siamo visti.
Un viso ancora sorprendentemente liscio e luminoso, raccolto in un velo di lana blu sottile. Diresti, con lo sguardo che ormai ci contamina, che le difficoltà della vita l’abbiano solo sfiorata. Poi la guardi negli occhi e vedi come sono profonde la sua bontà e la sua malinconia. La vita l’ha segnata, ma è come se la sua dignità te lo volesse nascondere.

E’ arrivata in Italia da trent’anni, con un volo di linea e il suo permesso di soggiorno.
Le manca la mano destra: un incidente, dice lei, e non posso indagare più a fondo: me lo chiedono i suoi occhi, le sue mani, il suo sorriso.
Da anni ormai, vive a Brescia. Dormiva alla stazione, su qualche panchina o sopra le onde di un cartone sottile. Da poco ha trovato due stanze che condivide con un’altra signora. La sua camera la descrive come fosse un “dono di Dio”. Capisco che non dev’essere proprio così, ma per lei lo è davvero. Non so come abbia vissuto, ma da parecchi anni chiede l’elemosina. “Una vita dura”, mi dice con la mano alla bocca, come per non svelare i tagli profondi che si porta nell’anima.
Ha un figlio. Da tre anni è in carcere, a Brescia. Uscirà tra un anno. Fatimah, tutte le settimane, lo passa a trovare: è l’unica persona che ha.
Da anni non torna nemmeno in Marocco dove risiedono ancora due suoi fratelli. Le loro mogli, mi dice, non la possono vedere. Qualche tempo fa, sono venuti in Italia, non sa dove, ma non li ha neppure sentiti.
Ora parliamo seduti in ufficio, mentre fuori il vento e la pioggia sferzano le ultime velleità di un inverno che si è solo affacciato alle nostre porte.

“Ora devo andare”, mi dice. “Predo un po’ di verdura, vado in stazione, aspetto il treno e me ne torno a casa”.
Mi saluta soffiandomi un bacio dal palmo della sua mano irrigidita dal freddo e dal tempo.
La vedo allontanarsi, avvolta nel suo impermeabile nero, vecchio e sdrucito. Cammina lenta, come se la sua esistenza fosse frenata da un paio di ciabatte troppo alte e da calzini di lana grossa e infeltrita. Regge il suo sacchetto di plastica con poca verdura, ma con il peso di una vita che io non saprei portare.
E quando i suoi occhi guardano i miei, non riesco a provare avversione.
Al prossimo sabato Fatimah, donna di un tempo che non sa guardare il cielo.