Leggendo “Aggiornare la Costituzione” di Guido Crainz e Carlo Fusaro

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a prima parte della Costituzione superava dunque ampiamente gli orizzonti culturali del tempo e proiettava il paese nel futuro: inevitabilmente invece la seconda parte – quella di cui oggi si discute, relativa all’organizzazione dei poteri – fu fortemente influenzata dai rischi incombenti, dalle incognite e dalle paure di allora. Tutto questo si aggiungeva all’esperienza ancora bruciante del fascismo e dava ulteriore corpo alla preoccupazione «antigiacobina» della Dc. Di qui l’impostazione che poi prevalse, al termine di un percorso accidentato e non lineare. Di qui l’estrema attenzione a contrappesi, organi di garanzia, poteri diffusi (impostazione sostanzialmente subita più che accettata dal Pci): dall’ordinamento regionale all’istituto del referendum popolare, dalla Corte costituzionale al Consiglio superiore della magistratura. E sino alla decisione di dar vita a una seconda Camera, con un esito finale che certo non fu lo svolgimento coerente di un lucido progetto originario.
Di qui, ancor prima, l’esclusione di ipotesi presidenzialiste e la delineazione di un esecutivo sostanzialmente debole, accantonando proposte pur avanzate da figure come Piero Calamandrei o dal Partito d’Azione.

A giusto titolo nell’aprile del 1946 De Gasperi può aprire il primo congresso democristiano rinviando alle proposte già presenti nelle Idee ricostruttive della Dc (luglio 1943): fra esse «le due assemblee, e dunque il problema bicamerale, l’organizzazione delle professioni e l’organizzazione dell’ente regione, la corte suprema costituzionale» (De Gasperi 1956).
Da quest’ultimo aspetto conviene prendere avvio, e ad esso si richiama in quel congresso anche Guido Gonella tracciando il programma per la Costituente: «fissato il principio della Costituzione scritta e rigida, se non si vuole ripetere l’amara esperienza delle sistematiche violazioni della Costituzione si impone la necessità della istituzione di una Corte suprema delle garanzie costituzionali».

Il Pci e il Psi subiscono di mala voglia questa impostazione e sono illuminanti gli interventi di Nenni e di Togliatti nel dibattito generale, nel marzo del 1947. Lo è quello di Nenni, per l’esplicita insensibilità ai nodi delle garanzie: «non spenderò altre parole per mettere alla berlina la Corte Costituzionale. Sulla costituzionalità delle leggi non può deliberare che l’Assemblea nazionale, il Parlamento, non potendo accettarsi altro controllo che quello del popolo».
E lo è ancor di più quello di Togliatti, rivelatore anch’esso di un clima e di una cultura. Tutte queste norme – dice il leader comunista – «sono state ispirate dal timore: si teme che domani vi possa essere una maggioranza che sia espressione libera e diretta di quelle classi lavoratrici, le quali vogliono profondamente innovare la struttura politica, economica, sociale del Paese: e per questa eventualità si vogliono prendere garanzie, si vogliono mettere delle remore: di qui la pesantezza e lentezza nella elaborazione legislativa […] e di qui anche quella bizzarria della Corte Costituzionale». Di qui «tutto questo sistema di inciampi, di impossibilità, di voti di fiducia, di seconde Camere, di referendum a ripetizione, di Corti costituzionali, ecc.».
Gli stessi giudizi saranno presenti l’anno successivo nella relazione di Togliatti al Congresso del Pci: la prima parte della Costituzione, dice, indica la strada «per operare profonde trasformazioni di carattere economico e sociale […]: parla non più soltanto degli astratti diritti di libertà dell’uomo e del cittadino, ma del nuovo diritto di tutti gli uomini e le donne al lavoro, a una retribuzione sufficiente ai bisogni dell’esistenza, all’educazione, al riposo, all’assistenza sociale». Nella seconda parte invece – prosegue Togliatti – la Dc e le forze conservatrici sono riuscite a introdurre una serie di misure «con l’esclusivo intento di porre ostacoli e barriere» a una «Assemblea di rappresentanti del popolo la quale volesse veramente e speditamente marciare sulla via di un profondo mutamento del Paese, applicando nei fatti le promesse della Costituzione» (Togliatti 1948).
Quello era il clima, e si leggano a conferma alcune testimonianze successive di Giuseppe Dossetti: «certe scelte costituzionali, soprattutto della seconda parte della Costituzione, che anche oggi […] hanno gravato sulla paralisi del nostro Stato, sono dovute al pensiero che si dovesse assolutamente evitare tutto quello che poteva facilitare l’accesso al potere di un partito che aveva intenzioni totalitarie e dittatoriali».
Di qui «una voluta intenzionalità nel delineare certe strutture non perché funzionassero ma perché fossero deboli […]: il governo, innanzitutto […]; quindi la doppia Camera, con pari autorità ed efficacia, quindi un congegno legislativo che […] non poteva esprimere un’efficienza qualsiasi» (Dossetti 1996). Toni sin eccessivi, forse, ma presenti anche in altre testimonianze di Dossetti: «la preoccupazione maggiore di De Gasperi era il fatto che il Pei potesse diventare maggioranza. Il carattere eccessivamente garantista della Costituzione è nato lì». E nello stesso testo Giuseppe Lazzati dice: «noi avevamo fatto serie obiezioni al bicameralismo… ma non passarono» (Elia – Scoppola 2003). Già nel 1951 del resto, parlando a un convegno dei giuristi cattolici, Dossetti aveva considerato superato il bicameralismo «integrale» e aveva affermato che il nostro sistema costituzionale «era stato strutturalmente predisposto sulla base di un contrappeso reciproco di poteri e quindi di un funzionamento complesso, lento e raro» (Fusaro 2015).

Alla lunga distanza, decantati gli umori del tempo (e della memoria stessa dei protagonisti), possiamo cogliere meglio il grande interrogativo che stava sullo sfondo: «come garantire la vita di una democrazia in un tessuto politico e sociale caratterizzato da una forte disomogeneità, se la vocazione naturale dei sistemi disomogenei è verso la rottura autoritaria, verso l’esclusione dell’avversario, verso l’affermazione di una soltanto delle parti in conflitto?» (Cheli 2000).

Due Camere: ma come?
Si consideri ora più da vicino il percorso che portò al bicameralismo paritario sancito dalla Carta. Il bicameralismo è presente sin dall’inizio, come si è visto, nell’impostazione della Dc ma sulla natura della seconda Camera le idee mutano radicalmente nel tempo. Ne “La parola dei democratici cristiani”, ad esempio, De Gasperi la immaginava come «un’Assemblea rappresentativa degli interessi organizzati, prevalentemente eletta dalle rappresentanze del lavoro e delle professioni» (con evidenti influenze del corporativismo cattolico): progressivamente questa impostazione è lasciata cadere e nei lavori della Costituente emergono altri possibili profili.

L’organizzazione dei poteri dello Stato è materia affidata alla seconda Sottocommissione, e nel settembre del 1946 la relazione sul potere legislativo del giurista democratico cristiano Costantino Mortati, uno dei protagonisti di quel dibattito, dedica ampio spazio alla «convenienza dell’introduzione del sistema bicamerale». Nella sua lettura la seconda Camera poteva avere tre funzioni: «funzione ritardatrice della procedura legislativa», per riflettere sulle decisioni prese; «integrazione della rappresentanza»; «assunzione delle competenze specifiche». Per giungere a questi risultati, aggiungeva, possono essere opportuni metodi di formazione della seconda Camera «non collegati con l’elezione diretta da parte del corpo elettorale indifferenziato». È opportuno cioè intrecciare competenze professionali (la prima ipotesi degasperiana) e rappresentanze dei Comuni e delle Regioni (Pombeni 2016).
In quest’ultima direzione ci si volge ora, e il 17 ottobre del 1946 «l’Unità» può annunciare, e criticare, la prima decisione che viene presa: Le Regioni e i Comuni eleggeranno la seconda Camera. L’ordine del giorno approvato allora, con l’astensione di comunisti e socialisti, prevede infatti che la Camera sia eletta per un terzo dalle Regioni e per due terzi dai Comuni. La critica del quotidiano comunista è affidata a un intervento di Vezio Crisafulli, “La struttura della seconda Camera”: quella scelta viene letta come un contrappeso conservatore al suffragio universale.

Quella prima decisione sembra destinata a permanere e nel gennaio del 1947 ad essa si richiama il repubblicano Tomaso Perassi, altra voce influente alla Costituente. Nella stessa occasione Mortati ribadisce l’opportunità di «differenziare le due Camere seguendo un criterio di integrazione della rappresentanza politica», e auspica ancora che nella seconda Camera vi sia una «rappresentanza ripartita secondo le attività esercitate». Si sorvoli pure sulla preferenza di Luigi Einaudi per un Senato non dominato dai partiti ed eletto con il vecchio collegio uninominale, o sulla preferenza per il sistema monocamerale del Partito d’Azione (ma al suo interno era presente anche l’ipotesi di un Senato «espressione delle Camere regionali»). E si citi almeno di sfuggita la mozione per la Costituente approvata al congresso di Firenze del Partito socialista nell’aprile del 1946, presentata e illustrata da Massimo Severo Giannini: essa prevedeva «una sola Camera, eletta a suffragio diretto e segreto e, almeno per un primo tempo, proporzionale» (Cassese 2015).

Di molto altro si potrebbe parlare ma in quell’inizio del 1947 i colpi di scena sono alle porte.
Alla ripresa dei lavori di Commissione è respinta la proposta di Mortati per un Senato composto da rappresentanze di carattere professionale, si decide che sia eletto per un terzo dai Consigli regionali, e viene poi approvata di stretta misura la proposta di eleggere gli altri due terzi «a suffragio universale diretto da parte di tutti gli elettori che abbiano superato il 25° anno d’età».

Ancora nulla rispetto a quel che accade a ottobre. Si vota allora su due ordini del giorno che propongono entrambi «l’elezione del Senato a suffragio universale e diretto»: quello che ha come primo firmatario Edgardo Lami Starnuti prevede però il sistema proporzionale, quello del vecchio Nitti, memore del pre-fascismo (ma sostenuto in questo caso anche da Togliatti), il sistema uninominale. Prevale di poco quest’ultima posizione ma è una vittoria di Pirro: la legge elettorale formulata e approvata dopo l’entrata in vigore della Costituzione – e destinata a segnare per decenni la vita della Repubblica – mantiene formalmente i collegi uninominali ma al tempo stesso, fissando un quorum altissimo, instaura di fatto un sistema proporzionale (Pombeni 2016).

E molto simile a un imprevedibile romanzo, come si vede, il percorso che portò al «bicameralismo perfetto» così come fu delineato alla fine, con differenze marginali nelle modalità d’elezione dei due rami del Parlamento.
Nel testo definitivo sottolineavano il valore di «contrappeso» del Senato sia la maggior età richiesta per votare ed essere eletti sia la durata più lunga rispetto alla Camera (sei anni contro cinque). Un «dettato costituzionale», quest’ultimo, mai rispettato: nel 1953 e nel 1958 il Senato fu sciolto anticipatamente solo per far coincidere i tempi (scelta poco ortodossa, si ammetterà), e nel 1963 verrà la modifica costituzionale. E la dicitura, rimasta nella Carta, della sua elezione «a base regionale» è un residuo pressoché ininfluente delle ipotesi precedenti.

Oggi le paure e i rischi di allora non esistono più. Altre incognite si sono addensate sul futuro del nostro Paese.
La seconda parte della Costituzione DEVE essere adeguata agli scenari di oggi.
La Riforma lo fa.

GL